Adesso sono sola

Collocazione temporale: prima dell’inizio della serie
Personaggi: Caterina/Stefano/Olivia

Caterina

«Non dovresti essere qui.»
La voce severa di mio padre mi fa alzare la testa dalle braccia incrociate. Il dolore alla schiena, che solo una posizione scomoda può provocarti quando ti addormenti a tradimento seduta su una sedia di plastica, arriva in un’unica ondata. Con lui, la consapevolezza che un altro giorno sta per finire nell’impietosa conta dei pochi altri giorni che rimangono.
«Non hai un esame tra tre giorni?»
Scosto un ciuffo di capelli dalla bocca e stiro le braccia. Nonostante il suo tono elevato, la nonna dorme ancora. Con i capelli sparsi sul cuscino, la bocca semiaperta, il torace che si abbassa piano e poi si rialza come se quei pochi centimetri costassero più fatica di una maratona in piena estate.
Mio padre chiude la porta della stanza e fa il giro del letto. Si ferma a pochi passi da me e comunque sono anche troppi.
«Dov’è Ivana? Non la pago per starsene in pausa.»
«L’ho mandata a casa.»
«Cos’è che hai fatto?»
«Le ho detto che l’avremmo pagata lo stesso.»
«Cos’è che hai fatto?»
Quello che avresti dovuto fare tu.
Ma non lo dico. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui mi sono sprecata a essere sincera con Giordano Marte e l’esperienza mi ha insegnato che ogni tentativo in quel verso è infruttuoso.
Mi stringo nelle spalle. «Ci sono io. E dietro la porta ci sono infermieri e medici. Non vedo perché ci sia bisogno anche di lei.»
«Caterina, giuro che non so cosa io e tua madre abbiamo sbagliato con te.»
«Vuoi una lista in ordine alfabetico o preferisci un più classico brainstorming casuale?»
Mio padre gonfia le guance. Lo guardo muovere la bocca, sbracciarsi e sbraitare senza ascoltare una parola. Posso comunque parafrasare e non sbaglierei.
Sei cresciuta nella bambagia dei miei soldi… ingrata per l’istruzione che io e tua madre ti stiamo pagando… Tua nonna vorrebbe che tu ti dedicassi al futuro e non che dormissi in ospedale perdendo un esame universitario dopo l’altro…
La verità è che mio padre ha un grande problema: non riesce ad accettare di non avere alcuna autorità su di me. Non accetterò mai la strada che lui ha scelto al mio posto. Ha già traviato un figlio, direi che potrebbe accontentarsi.
«Senti, io esco un attimo, magari ti calmi.»
Per la cronaca, non si calma.
Ma mi basta aprire la porta della stanza per zittirlo. Non sia mai che qualche infermiere di passaggio sorprenda il genio dell’informatica mentre si esibisce nella sua peggiore versione di sé.
Avanzo nel corridoio ampio, con la calda illuminazione che si spande sul rassicurante rosa pesca delle pareti. Passo la guardiola ed esco nella calura serale; l’umidità mi si incolla addosso come una pellicola per alimenti. Sono da poco passate le nove, il cielo è imbrunito e io vorrei poter tornare indietro di poco, anche solo di un mese e mezzo, quando le mie giornate erano fatte di villa Gabri, del mio nuovo blog, delle colazioni con nonna sotto il patio, delle grigliate con gli amici a bordo piscina che lei autorizzava di nascosto dai miei genitori. Una vita meravigliosa che non mi verrà più restituita.
«Ciao, Caterina.»
La voce di mio fratello mi sorprende mentre sono appoggiata con la schiena sul muro, sotto il faretto che illumina l’ingresso della struttura.
Faccio per andargli incontro, quando mi accorgo che non è solo.
«Siamo venuti non appena possibile» dice, passando un braccio attorno alla vita della sua fidanzata.
Lavorano entrambi per l’azienda di mio padre, anche se in due reparti diversi. E sono dei pazzi stakanovisti che pensano di essere direttamente connessi alla produzione del PIL nazionale, davanti a cui anche attività come mangiare e andare di corpo diventano secondarie se non del tutto superflue. Almeno spero che a Olivia la natura presenti il conto sotto forma di blocco intestinale. Sarebbe una forma di sofferenza più che coerente per una stronza come lei.
«Sono le nove» rimarco.
«Lo so, mi dispiace» risponde mio fratello. Olivia si appende al suo braccio, mentre lui chiede con voce incerta: «Nonna?»
«Vi accompagno dentro.»
La coppietta mi segue nei corridoi che ripercorro al contrario. Quando arriviamo nella stanza, troviamo la nonna sveglia. Mio padre, tanto per cambiare, è alla finestra che parla fitto al telefono.
Stefano e Olivia si accostano al letto, ma si vede che nessuno dei due è a proprio agio. Mio fratello sposta il peso del corpo da un piede all’altro e non riesce a guardarla in faccia per più di qualche secondo. Olivia cerca un posto dove poter appoggiare la sua Balenciaga senza che si impregni di chissà quale malattia infettiva. E dire che l’unica malattia mortale, qui, non è per nulla contagiosa.
La nonna mi fa cenno di avvicinarmi mentre Stefano riempie la stanza raccontandole qualche aneddoto da ufficio, ma io le rispondo di no con la testa. Tanto sappiamo entrambe che fingerò di andare via con mio fratello e poi resterò per la notte.
Sappiamo anche che sia mio padre sia Stefano non si tratterranno molto. Alcune persone semplicemente non sono capaci di starsene a guardare il dolore e a mio fratello non ne faccio una colpa. So che è in buona fede, che le vuole bene anche se fatica a dimostrarlo.
Quando mio padre finisce la telefonata, Olivia lo intercetta e insieme si spostano fuori dalla stanza a discutere di strategie aziendali. Dentro rimaniamo solo io e Ste.
«State bene, ragazzi?» La voce della nonna è sempre più flebile, ma il suo sguardo pur affaticato non ha perso un grammo di determinazione.
Sbuffo. «Nonna, ti preoccupi tu di noi quando dovrebbe essere il contrario.»
«No, pulcina, non sarà mai il contrario.»
Ma non ha ragione, perché io per lei mi preoccupo. Voglio ripagarla per quello che ha fatto per me. Anche se l’unica cosa che ho è la mia presenza.
Stefano copre l’imbarazzo zoppicando parole inutili e, quando le finisce, si congeda. La nonna gli stringe le dita delle mani tra le sue, io gli metto la borsa della sua fidanzata tra le braccia e lo accompagno alla porta.
«A papà diciamo che vengo a casa con te.»
«Papà non ci crederà più.»
«Se glielo dico io.»
Stefano sospira. «Cate…»
«Be’, solo perché è il tuo superiore hai paura di un’innocente bugia?»
Una volta non eri così, penso. Una volta eri il fratello maggiore che mi prendeva sottobraccio e mi difendeva a spada tratta.
Una volta.
«E va bene» cede. Per un attimo lo riconosco, un fugace ricordo dell’unico legame familiare che non si è sfilacciato del tutto. «Lo so che non vuoi parlarne, ma ormai è questione di giorni. Dovresti cominciare a pensare al tuo futuro, a…»
«No.»
«Non mi hai nemmeno lasciato finire.»
«Tu stai per andare a convivere. Da loro non ci torno neanche morta. E quel lavoro di merda non lo accetterò mai.»
«Quel lavoro di merda è un rispettabilissimo posto in MarsTech. Che, l’ultima volta che ho controllato, non faceva così schifo sul panorama professionale.»
«No. È l’unica risposta che avrai da me.»
«E quindi cosa farai? La casa verrà chiusa e…»
«Non lo so. Ci penserò. Lasciami stare, lasciami in pace almeno adesso.»
Stefano si incupisce. «Se insisto è perché mi preoccupo per te. Anche se ultimamente ci parliamo poco.»
Un eufemismo, proprio.
Poggio la mano sulla maniglia e apro la porta. «Vuoi aiutarmi? Non fare come loro e lasciami libera di scegliere. È un mio diritto.»
Rientro senza aggiungere altro. Nel corridoio, mio fratello dice a mio padre e a Olivia che non mi sentivo bene e sono corsa nella sua macchina. Dieci a zero che a nessuno dei due importa un accidente.
Come a nessuno dei due importa di tornare dentro e salutare la nonna.
«Perché ridi?» le chiedo, mentre trascino la poltrona reclinabile accanto al letto.
«Perché sei una gran testa dura, pulcina. Ma tuo fratello ha ragione. Pensa al futuro.»
«Sto per dare un esame.»
«Di una laurea che non ti interessa prendere. Se cerchi un’autorizzazione per mollarla, te la do io adesso.»
Non che sia un’idea nuova.
«Lo farò incazzare ancora di più.»
«Digli che sei sconvolta. Un lutto non è mai semplice. E nel frattempo, fai dell’altro. Mentigli se necessario, ma ingegnati. Trova la tua strada. Il mondo là fuori è pieno di bellezza.»
«Nonna, piantala di parlare di te come un cadavere, per favore» borbotto. «È già strano che non facciamo finta di nulla come nelle altre famiglie. Così è troppo.»
Lei tenta di ridere, ma la manovra le provoca solo un accesso di tosse. «Mi mancherai tanto, lo sai?»
Nonostante il suo tono leggero, le sue parole hanno la potenza di un mortaio.
Non ho la forza di dire altro.
Prendo la sua mano nella mia, appoggio la testa accanto al suo braccio e chiudo gli occhi. Non mi accorgo di scivolare nel sonno. Mi sveglio alle tre e undici minuti della notte, acciambellata sulla poltroncina.
La stanza è avvolta in un buio profondo. Uso il flash del cellulare come torcia, mentre cerco il pulsante per accendere l’abat-jour sul comodino.
Solo in un secondo momento mi accorgo che qualcosa stona nella quiete generale. Dopo quasi tre settimane di notti ho memorizzato con cura la composizione del silenzio notturno, fatto dei ronzii dei carrelli dei medicinali, dei motori lontani provenienti dalla strada, dei passi delicati degli infermieri. Non ci impiego molto a capire l’ingrediente mancante, perché è il principale.
Un respiro basso, cadenzato, che mi è sempre stato di consolazione nelle scorse veglie.
Un respiro che non c’è più.
Volatilizzandosi, si è portato via l’unica persona al mondo che tenesse a me.
Nonna è morta e adesso io sono sola.