Extra Effetti Collaterali – Tutto quello che voglio per Natale

Collocazione temporale: prima dell’inizio della serie
Personaggi: Sabrina/Pietro

Vigilia di Natale

Sabrina


Indossare un tubino su delle calze finissime per attraversare mezza città nel freddo dicembrino dovrebbe essere inserito da una delibera di giunta tra le forme di tortura milanesi.
Sono le sette di sera del 24 dicembre, dal cielo cade una pioggerellina gelata che si conficca fin nell’anima e l’unica cosa a cui riesco a pensare, mentre le mie scarpe stiletto ticchettano sul marciapiede verso la redazione radiofonica Just You, è che sono una deficiente cosmica.
Non tanto per l’outfit poco adeguato al meteo attuale, e neanche perché sto cercando di non morire assiderata sprofondando in un soprabito chiaramente inadatto a proteggermi. No, sono una deficiente cosmica per il motivo che mi ha convinta che fosse una buona idea staccare prima dal lavoro usufruendo di permessi che non ho, gettare la divisa nell’armadietto dello spogliatoio, vestirmi di fretta, truccarmi alla cieca nell’infimo bagno di servizio e uscire senza essere coperta come un Inuit.
Per fortuna, la mia traballante corsa ghiacciata sta per terminare. Sono ad Affori. Attraverso due laterali e mi fermo di fronte allo stabile le cui finestre illuminate arrivano a toccare il cielo nero.
Qualche secondo più tardi, che trascorro combattendo contro l’ibernazione mentre cammino in tondo, la porta d’ingresso scatta.
Mi volto, dolorante fino alle punte dei piedi.
Ed eccolo. Il motivo per cui ho affrontato il freddo senza jeans, felpa e stivali di pelo è comparso sulla porta.
Si chiama Pietro, ha ventiquattro anni, un numero di matricola al Politecnico – ancora per poco, visto che tempo un mese e si laureerà alla specialistica – ed è attualmente in possesso di un badge per dipendenti che consente l’accesso all’edificio.
«Sabri» mi chiama lui con un cenno. «Entra! Si gela stasera.»
Con la braccia allacciate al petto, lo seguo all’interno.
L’atrio del piano terra è tirato a giorno da lunghi neon e, in un angolo, un albero di Natale di plastica bianca torreggia su una pila di scatole vuote, incartate scenograficamente con della carta rossa lucida.
Il bancone di legno chiaro della reception è ordinato e deserto. In compenso, una lieve musica in filodiffusione riempie l’aria. La canzone appartiene al più triste repertorio natalizio riciclato dagli anni passati e, quando finisce, viene sostituita dal jingle in versione altrettanto natalizia della Just You.
«Ma vi auto-ascoltate?» domando. «Quanto siete aziendalisti…»
Pietro ride. «Benvenuta all’inferno. Sei sicura di farcela?»
«A non dire niente di fuori luogo, non fare niente che possa imbarazzarti e tenermi alla larga dal conduttore in turno, qualunque cosa succeda?» Fingo di pensarci su. «No. Avresti dovuto chiedere a Melissa di accompagnarti.»
Di nuovo, lui ride.
Io un po’ meno.
Perché so che gliel’ha chiesto. E credo anche che, sotto sotto, l’avrebbe preferita.
Ma la nostra migliore amica è partita ieri mattina per Innsbruck; starà da suo padre per le vacanze di Natale e, per festeggiare ancora meglio, si è portata dietro Leonardo, il suo ragazzo. Là li attendono tenere passeggiate mano nella mano sulle sponde innevate del fiume Inn, alternate a sessioni di amplessi notturni nella mansarda rustica di casa Neri-Winkler. Un’offerta che non poteva competere con la festa natalizia di una stazione radiofonica minore che trasmette principalmente via web e su DAB.
Quindi niente, stasera Pietro si deve accontentare di me.
E non lo dico a caso. Accontentarsi, quando io sono accanto a Pietro, è il massimo riassunto di senso. L’etichetta riepilogativa che appiccicherei sugli ultimi quattro anni della mia vita sentimentale, anche se a essere onesta conferirle lo status di “organismo vivente” è un’approssimazione per eccesso.
Pietro chiama l’ascensore e un minuto più tardi raggiungiamo il secondo piano. È la prima volta che metto piede nel posto dove lui ha lavorato negli scorsi sei mesi. Le stanze delle registrazioni hanno le pareti a vetro e sono decorate con vischi e ghirlande di palline rosse. Solo una, però, è sigillata. Dentro c’è Sabino Gatti, il conduttore radiofonico che ha perso alle finali della malasorte e stasera deve tenere in piedi da solo il palinsesto occupandosi dello speciale “Lettere sotto l’albero”, mentre i suoi colleghi nella stanza accanto si sfondano di panettone e vin brulè.
Pietro mi fa strada fino al locale tecnico, sopra la cui scrivania giacciono due PC e un cumulo di cavi di rete, e mi spiega che posso lasciare il soprabito sulla sua postazione. Lo faccio. Mi tolgo l’unico strato coprente e aspetto una reazione.
«Ma sai, nonostante le follie, nonostante le riunioni alle sei e mezza della mattina, nonostante le volte in cui sono andato a prendere la prole della mia capa a scuola al suo posto inventandomi palle colossali per coprirla con i suoi figli che l’aspettavano, e questa è una cosa per cui si finisce dritti all’inferno senza contradditorio» sta dicendo in tranquillità, mentre appoggia il culo sulla scrivania e incrocia le braccia sulla camicia leggermente stropicciata, «ecco, nonostante tutto ciò, credo che questo posto, in minima parte, azzarderei quasi infinitesimale, alla scadenza del contratto tra sei giorni mi mancherà.»
E io credo di essere un po’ senza parole.
Abbasso lo sguardo sul vestito.
È nero, scollato e aderente in modo spudorato.
L’ultima volta che l’ho indossato ero uscita con un tizio rimorchiato su Tinder, e mi ha aiutato a raggiungere due orgasmi e mezzo in una sera – perché la mia vita sentimentale fa schifo, ma la mia vita sessuale è un po’ più in salute.
Tinder boy lo aveva definito “una bomba che si è scaricata sulla punta del mio…”
Comunque.
Non è che io sia la più figa del quartiere. È che ho molte tette. E curve. E insomma, sono particolari a cui di solito gli uomini etero sono recettivi. Soprattutto quando decidi di impacchettarli in un certo modo che al caso non lascia nulla.
Ma Pietro? Zero.
Non se ne accorge neanche.
Non esisto per lui, in quel senso.
«Ehi, pronto, ci sei?» Il mio amico mi sventola una mano davanti alla faccia. «Sei strana, stasera! Ma che hai?»
Che ho?
Ho che mi viene quasi da piangere…
«Niente!» Raddrizzo la schiena e mi rimetto il sorriso della speranza. «Allora, facciamo un giro? Mi presenti i tuoi colleghi?»
Il suo volto si illumina, e in un impeto mi lascia anche una mezza carezza sulla guancia.
Vorrei dire che il suo tocco non mi fa alcun effetto.
Vorrei dire che ad averlo vicino non mi sento in preda ad aritmie cardiache o apnee polmonari, vorrei dire che sono anestetizzata alla sua presenza come lui lo è alla mia, al mio vestito sexy e ai miei maldestrissimi tentativi di fargli presente che sono una donna anche al di fuori dell’avatar che scelgo durante le serate Xbox con i nostri amici.
Vorrei, sì.
Ma si può mentire a se stessi solo fino a un certo punto: poi diventa un prendersi per il culo da soli. E quello preferisco evitarlo.
E così, per un attimo, mi soffermo sulle cose positive: che questa è la magica sera della Vigilia, che lui mi ha invitata come sua accompagnatrice, che bere un calice di vino e poi tirarlo in parte nel locale tecnico e dichiarargli che gli muoio dietro da quando lo conosco è un’idea geniale.
E be’, magari conoscendolo lo metterò in imbarazzo. Magari sul momento penserà che come al solito io sia azzardata e inaffidabile. Che mi sono messa in testa un’idea e l’ho coltivata fino a convincermi che sia vera, come succede quando mi autodiagnostico sintomi di malattie deducendo di essere a un passo dal testamento.
Ma poi… si renderà conto che è lui a essere in torto.
Si renderà conto che dalla festa in giardino del primo anno di università, quella in cui ci siamo conosciuti e dopo neanche un’ora ci siamo mezzi baciati da ubriachi, per me non è cambiato niente. È solo che ci siamo ritrovati per le mani una cosa esplosiva che è scoppiata per un secondo tra noi e invece di inseguirla l’abbiamo minimizzata, sedata, costretta a diventare un rapporto che, pur splendido, non è quello che voglio.
Quattro anni in cui avremmo potuto essere più che felici.
Avremmo potuto essere completi.
«Comunque, Sabri, sono davvero un sacco contento che tu sia venuta.»
Me lo dice mentre attraversiamo il corridoio, fianco a fianco.
E io comincio a pensare che questa sia la sera.
La sera in cui finalmente cambierà tutto.
«Anch’io!» rispondo, allegra.
La festa si tiene in una grande sala da dove proviene un vocio brulicante. Entriamo. Pietro mi posa una mano sulla schiena, appena sopra il sedere. Lo percepisco come se fossi nuda.
Quasi spero che lasci il braccio dov’è, o in alternativa che lo usi per attirarmi a sé, ma non appena scavalliamo un gruppo di persone lui lo ritrae. «Anche perché con Melissa via e Giorgio e Francesco dispersi, sarai la prima a incontrarla.»
«La tua quasi ex capa schiavista?»
«No.»
Indica qualcuno a fondo sala.
Stavolta il suo sorriso arriva agli occhi.
«Lei.»

«E così mi ha presentato la sua nuova ragazza» concludo, ingerendo il fondo di prosecco.
Non so bene a che numero di calici sono arrivata, ma so che al momento sono seduta sopra la scrivania di Sabino Gatti, il tizio segregato nello studio di registrazione che tiene la rubrica “Lettere sotto l’albero”, con le gambe accavallate, i capelli sfatti e nessun senso di colpa perché lo sto disturbando mentre svolge il suo lavoro.
Non è che stia salvando vite umane, comunque. Fondamentalmente prende i messaggi vocali lasciati dagli ascoltatori all’account WhatsApp della radio. Sono letterine fittizie rivolte a Babbo Natale e Sabino sceglie quali mandare in onda, elargisce un consiglio e ci appiccica una canzone di Michael Bublé salvata dall’oblio.
«Una tizia che se ne esce dal nulla. Una del marketing che, davvero, chi cazzo è?» proseguo nella mia invettiva. «Una che gli ha persino trovato un lavoro fisso in un’azienda di logistica. La stessa in cui è stata presa lei! Ci credi? Cominciano a gennaio, entrambi. Insieme. Saranno colleghi» sottolineo. «Come potevo prevederla?!»
Afferro la bottiglia che ho trafugato dal tavolo degli alcolici della festa e mi rabbocco il bicchiere.
«Cioè, non fraintendermi. Non dico che io e lui siamo il lieto fine. Dico solo: perché? Perché nonostante in quattro anni io abbia racimolato un milione di prove del contrario, continuo a farmi così del male concedendomi il lusso della speranza? Perché continuo a guardarlo e a chiedermi che cazzo ho, davvero, che cazzo ho che non è abbastanza per lui?»
Sabino mi guarda. Guarda le mie tette. Le guardano tutti, ci sono abituata. Però distoglie subito lo sguardo. Sospira. Preme un pulsante. «E la prossima canzone è per Miriam, che questo Natale sogna di potersi disabbonare alla palestra e continuare a dimagrire senza fare attività fisica… Miriam, sei tutti noi! Resta sintonizzata su Just You perché ho proprio la canzone che fa per te.»
Preme un altro tasto e sul suo schermo vedo comparire le parole Christmas Dream.
Rido.
«Ora un po’ mi offendo, dai consigli del cavolo a tutti, e a me non dici nulla» protesto. «Devo lasciarti anch’io un vocale su WhatsApp?»
«Meglio di no» dice Sabino Gatti, «mi spaventeresti gli ascoltatori.»
«Scusa.» Prendo un altro sorso di vino e cerco di dimenticare tutto. «Cioè, in teoria dovrei essere dispiaciuta, ma sei l’unica cosa decente di questa festa. Quindi non è che sono dispiaciuta di essere mezza ubriaca sulla tua scrivania.»
Forse suona come un’avance, perché lui arrossisce.
«Sei adorabile» commento, «se non fossi innamorata del tuo collega, e tu non fossi in diretta nazionale, giuro che ci proverei con te.»
Sabino quasi si soffoca.
Non che sia il mio tipo. Ma nessuno è il mio tipo.
Quindi, che differenza fa?
«Sabrina!» La porta della camera di registrazione si apre di colpo. La causa di tutti i miei mali se ne sta sul cornicione, trafelato, neanche mi avesse cercata dappertutto. «Ma che fai? Disturbi la trasmissione?»
«Ehiii!» gli faccio segno con la mano di avvicinarsi. «Io e Sabino ci stiamo divertendo un sacco! Vero, tesoro?»
Sabino diventa bordeaux e Pietro se ne accorge, si stranisce.
«Ma hai bevuto?» si avvicina.
«No-ooo» lo rassicuro, facendo scivolare la bottiglia di lato sul tavolo nel tentativo di nasconderla dietro un portafoto. Solo che calcolo male la traiettoria, la colpisco con la mano e la traditrice si spande sul pavimento.
Merda!
Pietro resta fermo, attonito. Non dice niente. Si limita ad accucciarsi, raccoglierla. Poi prende dei tovaglioli dal blister a disposizione in un angolo della sala e asciuga i miei casini. Come se avesse già considerato che li avrei combinati e fosse abituato a sistemarli al mio posto.
Solo quando si rimette in piedi torna a parlarmi. «Avevi promesso “niente imbarazzo”.»
«Giuro che non volevo!» mi difendo.
Lui allarga un po’ gli occhi. Scuote la testa.
«Dài, vieni di là. Lascialo lavorare.»
Ed è il modo in cui lo borbotta che me lo fa capire: ai suoi occhi io sono un disastro. Non c’è da stupirsi se non sarò mai una vera possibilità. Se lui ha preferito una tizia qualunque a tutto quello che provo per lui.
Vorrei mandarlo al diavolo, ma lui fa un passo e mi circonda le spalle con il braccio. Mi tiene a sé mentre mi aiuta a scendere dal tavolo.
Basta questo per far evaporare le mie alternative.
Basta lui.
Mi accoccolo sul profilo del suo fianco e chiudo gli occhi, smetto di ragionare. Respiro.
Ringrazio di essere brilla abbastanza e ricambio la presa passandogli un braccio attorno alla vita. Siamo amici, posso farlo. Posso nascondere in questi gesti innocenti tutto quello che non posso permettermi di dirgli.
Posso continuare a reprimere, a uccidere. Posso continuare a fingere e spegnermi, nella speranza che prima o poi le conseguenze di questo folle sentimento a senso unico si spengano da sole.
In quel momento, scattano i rintocchi della mezzanotte.
Pietro si ferma. Siamo in mezzo al corridoio. Se questo fosse un maledetto film di Hallmark, qualcuno avrebbe appeso un vischio sopra le nostre teste. Lo guarderei, mi ricambierebbe. Mi direbbe che, wow, un vischio! E poi si scuserebbe, mi direbbe che mi ama da sempre. Che non può stare senza di me e che tizia del cazzo è solo una di passaggio. Una che non doveva neanche entrarci, in questa storia, ma poco male, rimediamo subito.
Invece lui si ferma. Mi scruta con tenerezza.
Mi accarezza la guancia.
«È Natale…»
Mi passa le mani attorno ai fianchi e io mi riempio di panico, di euforia, mi riempio di illusioni e di nulla.
Precipito nell’abbraccio che si chiude sulla mia schiena.
«Buon Natale, Sabri» sussurra.
È così che si rompe un cuore. Sotto il peso di ogni piccola crepa di cui è fatto un amore non corrisposto.
Eppure, non c’è niente più di questo.
Non c’è niente che abbia maggior valore.
È la contraddizione di base. Non posso allontanarmi, non posso avvicinarmi. Sono legata a un limite impossibile. E come ogni volta, arrivo alla stessa masochistica conclusione. Se non posso avere altro, se sono costretta ad accontentarmi di un rapporto che per lui è sufficiente e per me è vivo solo a metà… allora resisterò. Lo farò.
Non butterò quello che ho per un niente più grande.
La voce di Sabino Gatti risuona in filodiffusione.
Appoggio la guancia su quella del mio migliore amico, gli metto una mano sui capelli.
«Buon Natale, Pietro.»


Alla ragazza che non è ricambiata.
Certe storie non hanno il lieto fine, ma ti racconto un segreto: il lieto fine non lo puoi cercare in un’altra persona.
L’unico lieto fine possibile sei tu!
E ti svelo anche un’altra cosa: cadere fa meno male che restare appesa nel vuoto finché non ti si staccheranno le braccia. Perché un giorno succederà. Non avrai più la forza di restare aggrappata e mollerai la presa. Cadrai. E ti farai male, perché non sarai preparata al volo.
Quindi prendi un profondo respiro e fallo.
Buttati!
Vivi!
E resta sintonizzata su Just You, perché ho proprio la canzone che fa per te.

Buona fortuna.
E buon Natale.


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